Albert Ayler - Spiritual Unity
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Albert Ayler - Spiritual Unity
http://www.ondarock.it/jazz/recensioni/ayler_unity.htm
ALBERT AYLER TRIO
Spiritual Unity
(Esp-disk') 1964
jazz
di Salvatore Setola
Questa non è una recensione: è una manifestazione d’amore, e come tale va presa. Il lettore che, avvicinandosi a essa, vuole leggere di “altezze”, “di tempi pari e dispari”, “di ottave” e di sterili (o utilissimi, per carità) tecnicismi, è meglio che interrompa subito la sua lettura: chi scrive non ha le capacità di fare questo tipo di analisi e, a dire il vero, nemmeno la voglia (davvero si può pensare che il jazz e la musica in generale siano questo: asettica matematica, onanistica accademia?!).
Né tanto meno me ne starò qui a tediarvi raccontandovi del free jazz, della sua rivoluzione sociale e musicale, di Ornette Coleman e del suo manifesto. Ci sono interi libri per questo, che lo fanno sicuramente meglio di quanto chi scrive, con tutta la buona volontà, possa fare. E poi, in fondo, non è questo il punto.
Ci sono dischi che vanno al di là dello stile e della tecnica, al di là anche della storia perché nascono già storia, e “Spiritual Unity” è uno di questi.
Queste poche righe si pongono l’obiettivo, forse ancor più pretenzioso, di raccontarvi ciò che di “Spiritual Unity” non si può vedere, ma a cui si assiste sbalorditi e attoniti, di raccontarvi ciò che non si può ascoltare, ma che con la giusta predisposizione estetica si riesce a sentire. Qualcosa di profondo, eppure di assolutamente naturale: l’esaltazione del corpo e della vita attraverso la loro smaterializzazione e trasfigurazione nella più completa forma di trascendenza: la musica.
Albert Ayler (sassofono), Gary Peacock (contrabbasso) e Sonny Murray (batteria) diedero vita, nel luglio del 1964, a trenta minuti di libera improvvisazione, nei quali ogni strumento sembra porsi come prolungamento dell’apparato sensoriale dei tre musicisti: non solo semplici mezzi meccanici per sperimentare nuovi suoni ma, anche e soprattutto, protesi fisiche e spirituali per auscultare in modo nuovo e inaudito eterne sensazioni.
I terrificanti registri bassi del sassofono di Ayler, gli angoscianti glissando e i cancrenosi grumi di note che il sassofonista riesce a produrre rappresentano il rigenerarsi di un antico fuoco: il fuoco della vita. Molti artisti romantici sostenevano che per creare un’opera d’arte che fosse autentica, vera, bisognava che l’artista si sacrificasse per essa; l’opera d’arte era il fuoco e l’artista doveva farsi legna da ardere, diventando parte di esso. Ebbene, l’Albert Ayler Trio è quella legna, e “Spiritual Unity” è quel fuoco.
L’augurio di gioia sprigionato dal brevissimo tema iniziale di “Ghosts: First Variation” è il canto di libertà dei neri (un Old Time Feeling, basilare brano melodico), ragion per cui il jazz è nato. La stessa ragione che ha spinto Ayler a suonare: restituire il jazz al popolo afroamericano, restituire ai neri la loro voce.
Ma la voce negata porta all’urlo, al tumulto, alla protesta, e “Wizard”, in questo senso, si pone come un vero e proprio manifesto: il sax di Ayler vomita letteralmente note, e quei conati così volgari, così poco musicali, non sono altro che un richiamo alle origini col quale Ayler sembra dire ai cultori di un certo jazz “borghese”: “Andatevene a fare in culo voi e vostri localini jazz snob e già morti: questo è il suono della jungla, la primitiva danza dei miei padri!”.
Poi, dopo la rabbia, ci sono il pianto, il rancore e la disperazione di “Spirits”: il sassofono geme, soffre, sbraita in preda alla costernazione; è vivo, per davvero, e si dispera. Non si è davanti al suono di uno strumento: è la voce di un uomo che chiede inesorabilmente aiuto; è il grido desolato di un’anima errante, e possiede una vitalità straziante come un corpo in agonia che implora ancora un istante di vita.
E allora “Ghosts: Second Variation” non può che celebrare l’ultimo maestoso atto di questo straordinario inno spirituale alla vita: il dolore (i garriti disperati degli assolo di Ayler) per la libertà perduta, e la gioia (l’old time feeling da cui tutto era iniziato) per un’unità spirituale, raggiunta attraverso il ricongiungimento dell’anima col corpo, che sa tanto di libertà ritrovata.
Da ondarock.it
Artinside- Membro classe argento
- Data d'iscrizione : 29.01.09
Numero di messaggi : 3182
Località : Sassari
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Pre: Minimalist autocostruito
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Re: Albert Ayler - Spiritual Unity
Artinside ha scritto:http://www.ondarock.it/jazz/recensioni/ayler_unity.htm
ALBERT AYLER TRIO
Spiritual Unity
(Esp-disk') 1964
jazz
di Salvatore Setola
Questa non è una recensione: è una manifestazione d’amore, e come tale va presa. Il lettore che, avvicinandosi a essa, vuole leggere di “altezze”, “di tempi pari e dispari”, “di ottave” e di sterili (o utilissimi, per carità) tecnicismi, è meglio che interrompa subito la sua lettura: chi scrive non ha le capacità di fare questo tipo di analisi e, a dire il vero, nemmeno la voglia (davvero si può pensare che il jazz e la musica in generale siano questo: asettica matematica, onanistica accademia?!).
Né tanto meno me ne starò qui a tediarvi raccontandovi del free jazz, della sua rivoluzione sociale e musicale, di Ornette Coleman e del suo manifesto. Ci sono interi libri per questo, che lo fanno sicuramente meglio di quanto chi scrive, con tutta la buona volontà, possa fare. E poi, in fondo, non è questo il punto.
Ci sono dischi che vanno al di là dello stile e della tecnica, al di là anche della storia perché nascono già storia, e “Spiritual Unity” è uno di questi.
Queste poche righe si pongono l’obiettivo, forse ancor più pretenzioso, di raccontarvi ciò che di “Spiritual Unity” non si può vedere, ma a cui si assiste sbalorditi e attoniti, di raccontarvi ciò che non si può ascoltare, ma che con la giusta predisposizione estetica si riesce a sentire. Qualcosa di profondo, eppure di assolutamente naturale: l’esaltazione del corpo e della vita attraverso la loro smaterializzazione e trasfigurazione nella più completa forma di trascendenza: la musica.
Albert Ayler (sassofono), Gary Peacock (contrabbasso) e Sonny Murray (batteria) diedero vita, nel luglio del 1964, a trenta minuti di libera improvvisazione, nei quali ogni strumento sembra porsi come prolungamento dell’apparato sensoriale dei tre musicisti: non solo semplici mezzi meccanici per sperimentare nuovi suoni ma, anche e soprattutto, protesi fisiche e spirituali per auscultare in modo nuovo e inaudito eterne sensazioni.
I terrificanti registri bassi del sassofono di Ayler, gli angoscianti glissando e i cancrenosi grumi di note che il sassofonista riesce a produrre rappresentano il rigenerarsi di un antico fuoco: il fuoco della vita. Molti artisti romantici sostenevano che per creare un’opera d’arte che fosse autentica, vera, bisognava che l’artista si sacrificasse per essa; l’opera d’arte era il fuoco e l’artista doveva farsi legna da ardere, diventando parte di esso. Ebbene, l’Albert Ayler Trio è quella legna, e “Spiritual Unity” è quel fuoco.
L’augurio di gioia sprigionato dal brevissimo tema iniziale di “Ghosts: First Variation” è il canto di libertà dei neri (un Old Time Feeling, basilare brano melodico), ragion per cui il jazz è nato. La stessa ragione che ha spinto Ayler a suonare: restituire il jazz al popolo afroamericano, restituire ai neri la loro voce.
Ma la voce negata porta all’urlo, al tumulto, alla protesta, e “Wizard”, in questo senso, si pone come un vero e proprio manifesto: il sax di Ayler vomita letteralmente note, e quei conati così volgari, così poco musicali, non sono altro che un richiamo alle origini col quale Ayler sembra dire ai cultori di un certo jazz “borghese”: “Andatevene a fare in culo voi e vostri localini jazz snob e già morti: questo è il suono della jungla, la primitiva danza dei miei padri!”.
Poi, dopo la rabbia, ci sono il pianto, il rancore e la disperazione di “Spirits”: il sassofono geme, soffre, sbraita in preda alla costernazione; è vivo, per davvero, e si dispera. Non si è davanti al suono di uno strumento: è la voce di un uomo che chiede inesorabilmente aiuto; è il grido desolato di un’anima errante, e possiede una vitalità straziante come un corpo in agonia che implora ancora un istante di vita.
E allora “Ghosts: Second Variation” non può che celebrare l’ultimo maestoso atto di questo straordinario inno spirituale alla vita: il dolore (i garriti disperati degli assolo di Ayler) per la libertà perduta, e la gioia (l’old time feeling da cui tutto era iniziato) per un’unità spirituale, raggiunta attraverso il ricongiungimento dell’anima col corpo, che sa tanto di libertà ritrovata.
Da ondarock.it
Grazie Artinside per avermelo ricordato....ho rispolverato il vinile! Lo acquistai nel lontano 1985 quando questa musica rappresentava la mia ribellione.........
Pier
Pier- Membro classe bronzo
- Data d'iscrizione : 02.01.09
Numero di messaggi : 1187
Località : Terra Mare Cielo
Provincia : Pesaro-Urbino
Occupazione/Hobby : ..........fin che dura!
Impianto : Diffusori: Sony Carbocon SS-G3 (1980), Mission 70 MKII (1980), Elac Debut 5.2
Cuffie: Superlux HD-330 e HD-668B
Finali: AIYIMA A04, ABLETEC ALC0240, TPA3116 BREEZE Audio, DualTPA3116, Audiophonics TA2024
Pre: Myryad MP100
DAC: Dual ak4399 con xmos by weiliang, Musiland Monitor US02
Trasporto USB SPDF: Gustard U12
Sorgente: Foobar2000 + Noteboock IBM ThinkPad T42 + HD Seagate 1TB
Cavi di potenza: Qed Silver Anniversary
Cavo USB: Y by Pierpabass
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