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ROBERT OWENS - Art

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Messaggio Da Artinside Lun 28 Nov 2011 - 23:20

http://www.ondarock.it/recensioni/2010_owens.htm

ROBERT OWENS - Art Art54710


ROBERT OWENS
Art
(Compost) 2010
house, soul
di Raffaele De Caro, Giuliano Delli Paoli

Ci sono cose che non ti aspetti, che sono anche molto diverse da quello che immaginavi. Ti approcci al nuovo lavoro di Robert Owens e non puoi fare a meno di supporre quel concentrato di house classica e soul a cui ci ha sempre abituato. Non puoi fare a meno di pensare alle canzoni, con tanto di ritornello proveniente direttamente dagli anni Ottanta che già sai ti si ficcherà in testa. Ma improvvisamente, come spesso capita, scopri di avere torto e ti ritrovi davanti qualcosa di inaudito, inaspettato. Perché per certi versi “Art” è un disco davvero molto strano, nel quale i due elementi passato/futuro non sono in contrasto, ma si fondono miracolosamente per dare alla luce un lavoro insolito e coraggioso. Da una parte troviamo la classica house che abbiamo imparato ad amare anche grazie a Owens. Difatti, le atmosfere sono dichiaratamente passatiste, ispirate dai classici del soul, dense di tappeti sonori soffusi e cariche di seduzione. Non a caso, sarà facile scorgere nelle linee di basso un’impostazione da club newyorkese, cosi come negli accompagnamenti delle tastiere. E non potremmo fare a meno di pensare ai grandi della house quando Owens comincia a spargere la sua voce sulle basi strumentali.
Poi, riavvolgi il nastro e ti rendi conto che non c'è solo il passato, che qualcosa si è insinuato nei solchi di queste tracce per tentare un cambiamento. Già dalle basi si nota un pregevole mix di antico e moderno, con inserti di synth chiaramente odierni, sia nelle melodie che nell'approccio al brano, portando a una sensazione di "equilibrio" che strania, stordisce. Nel brano “Be Your Own Hero”, ad esempio, ascoltiamo un synth tipicamente electro, come ce ne sono tanti ultimamente. Eppure, l'andamento è diverso, oculato nel suo rallentamento. E così, l'effetto finale diventa simile alla tanto amata acid-house che imperversava con gloria nei meravigliosi Ottanta.

Ma è sulla voce che l'effetto sorpresa prende il sopravvento: non ci sono ritornelli, o almeno non dichiarati. Owens vola libero sopra le basi come se non avesse una meta precisa, sale e si libra in alto fino a cambiare direzione e ripiegare laddove nessuno avrebbe mai immaginato. In tal senso, non ci sono punti di riferimento. C'è un artista che ha preso il soul e la house e le sta trasfigurando per i suoi scopi, per andare verso i sentieri del cuore. La sua voce è diventato uno strumento che si sgancia dal classicismo, atta a rafforzare dei passaggi o a delinearne delicatamente la fine. L'impatto è spiazzante, soprattutto per chi era partito pensando di sapere già cosa pronosticare, trovandosi di fronte a un lavoro vocale semplicemente audace, di grande sperimentazione, in particolare per il genere di riferimento di Owens.
A dirla tutta, non è affatto facile addentrarsi nei meandri introduttivi di “Art“. È palesemente richiesto un grande atto di fede che ti spinge ad ascoltare ogni sfumatura con attenzione, fino ad accogliere fiduciosamente il percorso tracciato dall’ugola del Maestro. Il contrasto tra la voce e la strumentazione finisce per diventare un estremo punto di forza, riuscendo a trovare un amalgama di grande fascino e di grande impatto emotivo. Volendo dare dei riferimenti "alti" potremmo dire che questo sia, per Owens, il suo "Starsailor” house.

Per qualche condivisibile scelta produttiva, gli intenti si dividono con una certa nettezza nei due volumi. La prima metà del piatto incarna l’ostentata necessità di rallegrare i timpani lasciando poche tracce persuasive e impercettibili segnali di mutazione qua e là, in una caccia al tesoro senza sosta. Le linee vocali seguono quasi sempre una non precisata calma apparente, esplodendo in acuti appena smorzati dal ritmo. L’amico di sempre, Larry Head, tornato per portar luce, e l’elegante Atjazz si alternano a dovere disegnando con classe sezioni complesse, timbri pulsanti, in una sorta di mescola chilly trasfigurante. Basterebbe soffermarsi su “Reach Inside” e sui suoi micro-palpiti liquidi, con tanto di morbido tastierone a delineare un‘aurea incredibilmente cosmica, per intuire i sintomi dell’avvenuta mutazione. O più semplicemente, sarebbe opportuno lasciarsi cullare dall’inebriante “Wonderful” e da quella sua staticità soul intenta a fuggire da qualsiasi scopo meramente palliativo, contorcendosi in una danza apparentemente priva di coordinate. Ecco, sono proprio questi i momenti in cui Owens applica questa sorta di inaspettata “ricerca sonora“, risultando ora quieto, ora vibrante, ondeggiando soave nel proprio limbo evocativo. Da contraltare, “Counting Blessings” mescola ulteriormente le carte in gioco, sincronizzando diramazioni deep-house di certo più pungenti, votate a un avvicendamento melodico percussivo oscillante. Stesso dicasi per l’avvincente title track, tremendamente obliqua nel suo trotto enigmatico.

Tuttavia, Owens non rinuncia a tornare sui suoi passi, quasi come se avesse colmato di scatto queste sue nuove persuasioni. Così, la seconda ondata è tutto un magma di scorribande tipiche della house da sempre proposta fin dai tempi dei Fingers Inc. Cassa dritta e basso in levare in quatrto quarti: “Rise” è l’ascesa verso le stelle. Assistito divinamente dai vari Show-B e Beanfield, nel secondo atto Owens riapre le porte del proprio paradiso. Torna a manifestarsi l’elegante carica chicagoiana insita nel suo dna. “Unique”, “Be Your Own Hero”, “It Takes Me High” paiono estratte direttamente da una pianta di Ma Huang. Siamo dinanzi a conturbanti sobbalzi elettronici al cardiopalma, tesi a "proiettare" il Maestro in un delirio sensoriale senza precedenti. Stavolta, l’obiettivo primario è l’evacuazione immediata dell’anima e della carne dal tran tran quotidiano delle movenze. In sostanza, Owens cerca di raggiungere un’inebriante sinergia motoria mediante la fusione vocale del groove, riuscendoci, manco a dirlo, perfettamente.
Sempre sia lodato.
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