Cavallo pazzo
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Cavallo pazzo
In questi giorni mi sto dedicando alla sistematica (ri)scoperta dell'opera omnia di Neil Young (come poteva capirsi dal mio avatar).
Non ricordo di averne mai sentito parlare sul forum.
Possibile che non ci sia nessun iscritto che lo apprezzi ?
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plankg- Membro di riguardo
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Re: Cavallo pazzo
Non ho un solo disco suo, ma ho scolpito nel cervello e nel cuore "Harvest" , "After the gold rush" ,"Zuma" e "Comes a Time".
Ascoltate centinaia di volte in scorribande notturne postadolescenziali fine anni '70.
Proverò a riascoltare qualcosa.
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fritznet- Membro classe diamante
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Re: Cavallo pazzo
cerca e trovera.
Sono un suo grande ammiratore, conosco bene tutta la sua discografia.
In una mia ipotetica classifica rientra sicuramente nei primi dieci.
Muoio dalla voglia di sentire il suo ultimo album.
Rock and roll can never die
Sono un suo grande ammiratore, conosco bene tutta la sua discografia.
In una mia ipotetica classifica rientra sicuramente nei primi dieci.
Muoio dalla voglia di sentire il suo ultimo album.
Rock and roll can never die
zamo- Membro classe bronzo
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Re: Cavallo pazzo
Rock'n'roll can never die
NEIL YOUNG, CRAZY HORSE
Psychedelic Pill
Warner Music Group
Recensione del nuovo ultimo (il secondo quest'anno !!!) disco da Sentire Ascoltare:
Chi scrive non ha mancato di sottolineare quanto gli ultimi dischi di Neil Young sembrassero più urgenti che ispirati. Bene, con questo Psychedelic Pill - di nuovo in sella ai fidi Crazy Horse dopo il recente Americana - si rientra in carreggiata alla grande. E sapete di che razza di carreggiata stiamo parlando. Sommariamente, si tratta di otto pezzi più uno (la versione alternativa della title track) per quasi un'ora e mezza di caro vecchio country psych ad alto tasso d'elettricità. Ma in realtà in ballo c'è altro. Questo disco è un affronto alla dissoluzione del supporto fonografico, un rilancio avventato, un doppio album (triplo nella versione vinilica) come segno di sfacciata, baldanzosa persistenza. Un lavoro semplice e complesso assieme, certo ben consapevole di non poter arginare un bel nulla ma che ugualmente si butta nella mischia come se fosse l'unico modo per tracciare un confine tra definito e indefinito, tra significativo ed effimero.
In ogni traccia avverti frammenti di mille situazioni del catalogo younghiano (le coordinate convergono in particolare verso Zuma, Freedom, Sleep With Angels, il trascurato Broken Arrow e l'immancabile Rust Never Sleeps), detriti frutto dell'erosione di un edificio che eccede ormai se stesso, ma questo non ne svilisce la forza anzi ne sottolinea la natura, ne attesta l'origine amplificandone il mandato. E' un disco orgoglioso di portarsi dentro tutti i titoli che lo hanno preceduto, l'approdo solido di un lungo percorso, disposto a farsi preventivamente un baffo di ogni accusa d'obsolescenza perché sorretto da una convinzione granitica, ancor più rilevante in questi anni buoni a polverizzare i riferimenti in una miriade di stili simultaneamente possibili e perciò impossibili, perciò de-stilizzati.
Indifferente e fiero come una delle bestie a cui rimandano i suoi soprannomi (bisonte, cavallo pazzo, lupo grigio...), il sessantasettenne Young fa rotolare idee più o meno buone in una panatura scabra e vischiosa come insegna la ben nota ricetta, mantecando il tutto in un crogiolo di assoli che poi sono le variazioni di uno stesso, interminabile assolo iniziato (almeno) quattro decadi fa. Come dire è tutto un gioco signori, una pillola illusoria, ma ne abbiamo/ne avete bisogno: Ramada Inn è ballata melò tra deserto e asfalto, She's Always Dancing possiede impeto roccioso e lirismo corale CSN&Y, Born In Ontario snocciola country-stomp sanguigno e beffardello come certi siparietti che alleggerivano le scalette dei 70s, Twisted Road fa country folk tutto mentale e persino un po' (volontariamente?) caricaturale, Walk Like A Giant trama arpeggi e intagli acidi screziandoli con un fischio ammiccante e coretti beachboysiani fino al ritornello sbruffone.
Non si può tacere certo della mezz'ora d'immersione indolente e rapita di Drifting Back, innescata da un ciondolare acustico neanche troppo brillante ma quel che conta è peregrinare in sella al bisogno quasi fisiologico d'astrarsi sulla vibrazione elettrificata. Poi, certo, c'è Psychedelic Pill, il vocoder e il riffone in acido robottizzato spacey, rigurgiti Re-actor e Trans in cavalcata sbrecciata Ragged Glory, la semplicità basale Cinnamon Girl nell'assolo, la versione alternativa che toglie l'effettistica sottolineando filiazioni da Freedom (o meglio dal febbrile coevo Eldorado EP).
E' il disco di Young più riuscito da venti anni a questa parte, uno dei suoi più importanti per come impatta sul presente e per la potenza con cui tira le fila di una carriera formidabile. Nei "passi" finali della già citata Walk Like A Giant c'è qualcosa di giocoso, improrogabile (sono o non sono i "prisoners of rock'n'roll"?) e assieme struggente. E' una baracconata che rimanda a qualcosa di inesplicabilmente profondo che non demorde pur sapendosi quasi sul punto di arrendersi. E' lo psych rock come categoria del sentire, del vivere, dell'esprimere. Non ci credevamo quasi più, ma ancora una volta dobbiamo essere grati a Neil Young.
Stefano Solventi
(7.6/10)
Immenso Neil Young
plankg- Membro di riguardo
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Re: Cavallo pazzo
fritznet ha scritto:Non ho un solo disco suo, ma ho scolpito nel cervello e nel cuore "Harvest" , "After the gold rush" ,"Zuma" e "Comes a Time".
Ascoltate centinaia di volte in scorribande notturne postadolescenziali fine anni '70.
Proverò a riascoltare qualcosa.
E' quello che sto facendo in questi giorni.
E mi sta riempiendo il cuore...
only love can break your heart
plankg- Membro di riguardo
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Re: Cavallo pazzo
Aumenta la voglia di sentirlo, pensa che io sono innamorato anche della produzione anni ottanta.
Sono anche un fanatico di cover di sui pezzi.
Rock'n'roll can never die
Sono anche un fanatico di cover di sui pezzi.
Rock'n'roll can never die
zamo- Membro classe bronzo
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Re: Cavallo pazzo
http://www.rollingstonemagazine.it/musica/notizie/fallito-e-invidioso-lilleggibile-fantastico-libro-di-neil-young/59132
Fallito e Invidioso/ L’illeggibile, fantastico libro di Neil Young
Di Paolo Madeddu
Il libro di Neil Young, Waging heavy peace, è un disastro. E allo stesso tempo, è grandioso. Potete capire questa apparente contraddizione solo se siete suoi fan, ma non quelli à la carte, che scelgono le gemme: Harvest, Rust never sleeps, il recente Le noise... Però, mmh, Reactor no di certo, e Hawks and doves cosa sarebbe? Oh, no, così non va: per apprezzarlo dovete essere fan di quelli rotti a tutte le esperienze, gente che ha a casa Trans e lo trova niente male, e salverebbe più della metà di Life e Landing on water. Gente che ha visto cose che voi umani - eccetera. Perché il libro di Neil Young è l’autobiografia più sconcertante del mondo. E ve lo dice uno che ha letto quella di Al Bano.
Ecco, mettiamola così, il libro di Neil Young è come un suo concerto: bisogna essere pronti a momenti illuminanti, a lampi di assoluto che si pagano a caro prezzo con interminabili assoli pallosissimi e tecnicamente scadenti. Il libro di Neil Young non è lontanamente paragonabile a Life di Keith Richards, scritto da un giornalista al quale il tronfio supercattivo ha raccontato un 20 per cento di verità, un 40 per cento di meschinità piuttosto deprimenti e un 40 per cento di pure invenzioni che qualunque scemo che si sia strafatto di biografie incrociate dei Rolling Stones (...come per esempio il sottoscritto. E temo anche qualcuno di voi) può sgamare. No!, il suo libro, Neil Young lo ha scritto LUI, da solo, da vero Loner, in prima persona. E lo ha scritto come incide i dischi: buona la prima, anche se fa schifo. Lo ha scritto così come ha girato i suoi film: nessun filo conduttore, quello che mi viene in mente, lo metto. E lo metto dove voglio. Lo ha scritto senza adattarlo al lettore, anzi, ogni tanto prendendolo apertamente in giro: “Se ti sto annoiando, chiudi e regalalo a qualcun altro”, oppure “Quando ho conosciuto Linda Ronstadt, aveva una dipendenza dal burro di arachidi. Ehi, non è il tipo di dettaglio che ti aspetti da un libro come questo?”.
Ci sono pagine e pagine (e pagine, e pagine!) lentissime sui trenini elettrici, sui cani, su tutte le automobili che ha posseduto o anche solo guidato, e Neil non omette NIENTE, ci sommerge di particolari specialmente tecnici perché quello che scopriamo da questo libro è che il vecchio musone che sospettavamo essere un introverso poeta, è in realtà un geek maniacale, ma proprio da rinchiudere, fissato con meccanica, elettricità e ora elettronica, tanto da dedicare un numero clamoroso di capitoli a una sua nuova invenzione rivoluzionaria, la più recente tra tante: un sistema di riproduzione della musica ad altissima fedeltà che vendichi la musica, compressissima dall’mp3.
Quando invece ci imbattiamo nelle pagine, disseminate in modo casuale e privo di senso, che riguardano quello che vorremmo sapere veramente, è come trovare delle oasi dove abbeverarsi di particolari su Crosby, Stills e Nash, o Bob Dylan, Woodstock o le chiacchierate con Bruce Springsteen. Ma dura poco, lui immediatamente galoppa via come il Cavallo Pazzo, il gruppo-feticcio Crazy Horse cui dedica righe incredibili, quelle sì degne dell’ombroso ma inarrivabile autore di Thrasher o Ambulance Blues o Don’t let it bring you down.
Chi cerca aneddoti o rivelazioni su una carriera anomala e scorbutica ne troverà pochi. Ci sono, sì, pagine intense sulla vita on the road, consigliabili a una giovane band; ci sono tra le righe le prove di un rapporto surreale col denaro, sorta di fantasma che raramente viene nominato ma è presente praticamente sempre, perché fin dai tempi dei Buffalo Springfield appare chiaro che il mercato sorride a lui e agli amici del clan californiano, e niente è mai un problema per il giovane artista (...e buon per lui, perché per motivi familiari ne ha poi dovuto spendere a fiumi). Ci sono lunghe pagine sul suo intenso rapporto con Old Black, la sua chitarra preferita, sempre quella, da decenni, comprata usata.
Ma se i biografi più furbi sanno trasformare una biografia in un eccitante show in caratteri tipografici, Young se ne guarda bene, procede con la sua prosa plumbea e ci si diverte pure, centellinando le caramelle con parsimonia. Per esempio, bisogna setacciare tutte le 500 pagine per scoprire che imprevedibilmente, il rocker canadese dà ragione ai Lynyrd Skynyrd nel loro famoso dissing Sweet home Alabama, nel quale lo invitavano a star zitto e a non tacciare di razzismo gli stati del Sud. Oppure per scoprire che per anni visse da immigrato clandestino negli Usa, finché non si comprò il permesso di soggiorno (“Viva il capitalismo! Non è un sistema grandioso?” ironizza. Ma neanche tanto).
Di sesso ce n’è pochissimo, non sapremo mai se ha avuto una storia con Joni Mitchell e veniamo strappati con crudele rapidità dalla visione di Grace Slick che gira nuda nella casa dei Jefferson Airplane a San Francisco; in compenso ci sono distaccate, asettiche ma prolungate descrizioni di tutte le sfighe della sua vita: poliomelite, epilessia, due dei figli (da due madri diverse) affetti da paralisi cerebrale infantile, un aneurisma cerebrale, che è l’unico raccontato con un po’ di partecipazione. Ma per il resto, la 67enne leggenda, che pure è figlio di un affermato giornalista, raramente diventa emotivo; sembra più baloccarsi con la scrittura come un blogger un po’ pedante, che sbrodola la sua vita sui tasti di un computer. Scrive come compone: onesto, ma egocentrico. I tempi delle accordature aperte e delle soluzioni armoniche più stupefacenti, lo sanno bene i suoi ascoltatori, è finito da un po’. E mentre scrive non c’è un Daniel Lanois a costringerlo a superarsi.
E il bello di tutto questo è che corrisponde esattamente all’artista Neil Young come è diventato, e al suo dogma artistico, per dirla con Lars von Trier. Per quanto il suo regista preferito, dice, era Jean Luc Godard, e si capisce benissimo: non c’è modo di imbrigliare la sua idea di creazione artistica, di editarla, sfrondarne i lati pesanti, anzi! Sono quelli che lo affascinano maggiormente. Esempio: qualche giorno prima di mettersi a scrivere si rompe un alluce. Beh, l’alluce ha più pagine dei Pearl Jam, discepoli oltre che collaboratori. Oppure, aneddoto: durante l’incisione di Helpless, per Deja vu (CSNY, 1970), costringe tutti quanti a suonare il brano un numero infinito di volte, per ottenere dal malcapitato batterista Dallas Taylor la stanchezza necessaria a tenere il tempo con un feeling meno gagliardo, più arrendevole. Viceversa, quando si tratta di LUI, o del suo diletto Cavallo Pazzo, è buona la prima: Like a Hurricane viene pubblicata nella demo in cui spiega ai Crazy Horse come funziona la canzone. Ma il suo assolo “pur pieno di errori e incertezze”, gli piace tantissimo perché è vero, è rock’n’roll - quindi, quella demo va su disco così com’è. Era così a 25 anni, figuriamoci a 67.
Cercare di ammorbidirlo è impossibile, lo sanno bene i suoi ex compagni Crosby e Nash, a lungo tenuti in soggezione dal torreggiante canadese (a proposito: di quella volta che fece cancellare le loro voci da Long may you run, non parla). Lo sanno ancora meglio i suoi discografici, su tutti David Geffen che gli fece addirittura causa perché da quando lo aveva ingaggiato, “non stava facendo Neil Young”. Ecco, è una tentazione che viene anche al lettore: accusarlo di non fare Neil Young. Ma lui sottilmente replica con il capitolo su Kurt Cobain (artista della Geffen) e quella famosa frase dalla sua My my, hey hey: “It’s better to burn out, than to fade away” con cui Cobain salutò il mondo: io non sono morto a 27 anni perché non sono mai sceso a compromessi, dice Young, mentre Cobain è morto perché si sentiva schiacciato, ricattato dal successo. Sicché, sostanzialmente a ricattare chi ci ha a che fare è lui, per sua stessa ammissione “control freak”.
Perciò, personalmente, sconsiglio caldamente la lettura di Waging heavy peace (frase che indica non un suo atteggiamento verso la vita, ma verso Apple e iTunes, di nuovo per quella faccenda del riproduttore ad altissima fedeltà che ritorna ossessivamente nel libro). Ma nel contempo, dopo averlo letto, mi sento stremato e appagato come un sopravvissuto; non ho avuto le storie affascinanti, i dettagli segreti che speravo, eppure non ho mai letto un libro così simile al suo autore. E per la prima volta dopo anni, ho qualche risposta su quell’enigma che è sempre stato Neil Young. E la risposta è: un insopportabile, esasperante gigante del rock.
Fallito e Invidioso/ L’illeggibile, fantastico libro di Neil Young
Di Paolo Madeddu
Il libro di Neil Young, Waging heavy peace, è un disastro. E allo stesso tempo, è grandioso. Potete capire questa apparente contraddizione solo se siete suoi fan, ma non quelli à la carte, che scelgono le gemme: Harvest, Rust never sleeps, il recente Le noise... Però, mmh, Reactor no di certo, e Hawks and doves cosa sarebbe? Oh, no, così non va: per apprezzarlo dovete essere fan di quelli rotti a tutte le esperienze, gente che ha a casa Trans e lo trova niente male, e salverebbe più della metà di Life e Landing on water. Gente che ha visto cose che voi umani - eccetera. Perché il libro di Neil Young è l’autobiografia più sconcertante del mondo. E ve lo dice uno che ha letto quella di Al Bano.
Ecco, mettiamola così, il libro di Neil Young è come un suo concerto: bisogna essere pronti a momenti illuminanti, a lampi di assoluto che si pagano a caro prezzo con interminabili assoli pallosissimi e tecnicamente scadenti. Il libro di Neil Young non è lontanamente paragonabile a Life di Keith Richards, scritto da un giornalista al quale il tronfio supercattivo ha raccontato un 20 per cento di verità, un 40 per cento di meschinità piuttosto deprimenti e un 40 per cento di pure invenzioni che qualunque scemo che si sia strafatto di biografie incrociate dei Rolling Stones (...come per esempio il sottoscritto. E temo anche qualcuno di voi) può sgamare. No!, il suo libro, Neil Young lo ha scritto LUI, da solo, da vero Loner, in prima persona. E lo ha scritto come incide i dischi: buona la prima, anche se fa schifo. Lo ha scritto così come ha girato i suoi film: nessun filo conduttore, quello che mi viene in mente, lo metto. E lo metto dove voglio. Lo ha scritto senza adattarlo al lettore, anzi, ogni tanto prendendolo apertamente in giro: “Se ti sto annoiando, chiudi e regalalo a qualcun altro”, oppure “Quando ho conosciuto Linda Ronstadt, aveva una dipendenza dal burro di arachidi. Ehi, non è il tipo di dettaglio che ti aspetti da un libro come questo?”.
Ci sono pagine e pagine (e pagine, e pagine!) lentissime sui trenini elettrici, sui cani, su tutte le automobili che ha posseduto o anche solo guidato, e Neil non omette NIENTE, ci sommerge di particolari specialmente tecnici perché quello che scopriamo da questo libro è che il vecchio musone che sospettavamo essere un introverso poeta, è in realtà un geek maniacale, ma proprio da rinchiudere, fissato con meccanica, elettricità e ora elettronica, tanto da dedicare un numero clamoroso di capitoli a una sua nuova invenzione rivoluzionaria, la più recente tra tante: un sistema di riproduzione della musica ad altissima fedeltà che vendichi la musica, compressissima dall’mp3.
Quando invece ci imbattiamo nelle pagine, disseminate in modo casuale e privo di senso, che riguardano quello che vorremmo sapere veramente, è come trovare delle oasi dove abbeverarsi di particolari su Crosby, Stills e Nash, o Bob Dylan, Woodstock o le chiacchierate con Bruce Springsteen. Ma dura poco, lui immediatamente galoppa via come il Cavallo Pazzo, il gruppo-feticcio Crazy Horse cui dedica righe incredibili, quelle sì degne dell’ombroso ma inarrivabile autore di Thrasher o Ambulance Blues o Don’t let it bring you down.
Chi cerca aneddoti o rivelazioni su una carriera anomala e scorbutica ne troverà pochi. Ci sono, sì, pagine intense sulla vita on the road, consigliabili a una giovane band; ci sono tra le righe le prove di un rapporto surreale col denaro, sorta di fantasma che raramente viene nominato ma è presente praticamente sempre, perché fin dai tempi dei Buffalo Springfield appare chiaro che il mercato sorride a lui e agli amici del clan californiano, e niente è mai un problema per il giovane artista (...e buon per lui, perché per motivi familiari ne ha poi dovuto spendere a fiumi). Ci sono lunghe pagine sul suo intenso rapporto con Old Black, la sua chitarra preferita, sempre quella, da decenni, comprata usata.
Ma se i biografi più furbi sanno trasformare una biografia in un eccitante show in caratteri tipografici, Young se ne guarda bene, procede con la sua prosa plumbea e ci si diverte pure, centellinando le caramelle con parsimonia. Per esempio, bisogna setacciare tutte le 500 pagine per scoprire che imprevedibilmente, il rocker canadese dà ragione ai Lynyrd Skynyrd nel loro famoso dissing Sweet home Alabama, nel quale lo invitavano a star zitto e a non tacciare di razzismo gli stati del Sud. Oppure per scoprire che per anni visse da immigrato clandestino negli Usa, finché non si comprò il permesso di soggiorno (“Viva il capitalismo! Non è un sistema grandioso?” ironizza. Ma neanche tanto).
Di sesso ce n’è pochissimo, non sapremo mai se ha avuto una storia con Joni Mitchell e veniamo strappati con crudele rapidità dalla visione di Grace Slick che gira nuda nella casa dei Jefferson Airplane a San Francisco; in compenso ci sono distaccate, asettiche ma prolungate descrizioni di tutte le sfighe della sua vita: poliomelite, epilessia, due dei figli (da due madri diverse) affetti da paralisi cerebrale infantile, un aneurisma cerebrale, che è l’unico raccontato con un po’ di partecipazione. Ma per il resto, la 67enne leggenda, che pure è figlio di un affermato giornalista, raramente diventa emotivo; sembra più baloccarsi con la scrittura come un blogger un po’ pedante, che sbrodola la sua vita sui tasti di un computer. Scrive come compone: onesto, ma egocentrico. I tempi delle accordature aperte e delle soluzioni armoniche più stupefacenti, lo sanno bene i suoi ascoltatori, è finito da un po’. E mentre scrive non c’è un Daniel Lanois a costringerlo a superarsi.
E il bello di tutto questo è che corrisponde esattamente all’artista Neil Young come è diventato, e al suo dogma artistico, per dirla con Lars von Trier. Per quanto il suo regista preferito, dice, era Jean Luc Godard, e si capisce benissimo: non c’è modo di imbrigliare la sua idea di creazione artistica, di editarla, sfrondarne i lati pesanti, anzi! Sono quelli che lo affascinano maggiormente. Esempio: qualche giorno prima di mettersi a scrivere si rompe un alluce. Beh, l’alluce ha più pagine dei Pearl Jam, discepoli oltre che collaboratori. Oppure, aneddoto: durante l’incisione di Helpless, per Deja vu (CSNY, 1970), costringe tutti quanti a suonare il brano un numero infinito di volte, per ottenere dal malcapitato batterista Dallas Taylor la stanchezza necessaria a tenere il tempo con un feeling meno gagliardo, più arrendevole. Viceversa, quando si tratta di LUI, o del suo diletto Cavallo Pazzo, è buona la prima: Like a Hurricane viene pubblicata nella demo in cui spiega ai Crazy Horse come funziona la canzone. Ma il suo assolo “pur pieno di errori e incertezze”, gli piace tantissimo perché è vero, è rock’n’roll - quindi, quella demo va su disco così com’è. Era così a 25 anni, figuriamoci a 67.
Cercare di ammorbidirlo è impossibile, lo sanno bene i suoi ex compagni Crosby e Nash, a lungo tenuti in soggezione dal torreggiante canadese (a proposito: di quella volta che fece cancellare le loro voci da Long may you run, non parla). Lo sanno ancora meglio i suoi discografici, su tutti David Geffen che gli fece addirittura causa perché da quando lo aveva ingaggiato, “non stava facendo Neil Young”. Ecco, è una tentazione che viene anche al lettore: accusarlo di non fare Neil Young. Ma lui sottilmente replica con il capitolo su Kurt Cobain (artista della Geffen) e quella famosa frase dalla sua My my, hey hey: “It’s better to burn out, than to fade away” con cui Cobain salutò il mondo: io non sono morto a 27 anni perché non sono mai sceso a compromessi, dice Young, mentre Cobain è morto perché si sentiva schiacciato, ricattato dal successo. Sicché, sostanzialmente a ricattare chi ci ha a che fare è lui, per sua stessa ammissione “control freak”.
Perciò, personalmente, sconsiglio caldamente la lettura di Waging heavy peace (frase che indica non un suo atteggiamento verso la vita, ma verso Apple e iTunes, di nuovo per quella faccenda del riproduttore ad altissima fedeltà che ritorna ossessivamente nel libro). Ma nel contempo, dopo averlo letto, mi sento stremato e appagato come un sopravvissuto; non ho avuto le storie affascinanti, i dettagli segreti che speravo, eppure non ho mai letto un libro così simile al suo autore. E per la prima volta dopo anni, ho qualche risposta su quell’enigma che è sempre stato Neil Young. E la risposta è: un insopportabile, esasperante gigante del rock.
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