Big Black - Songs about fucking
5 partecipanti
Pagina 1 di 1
Big Black - Songs about fucking
http://www.storiadellamusica.it/Big_Black_-_Songs_About_Fucking_(Touch_&_Go,_1987).p0-r2758
Big Black
Songs About Fucking
di Michele Manca
Rivoli di piacere e dolore scorrono a fiotti dal volto di una giovane donna dai capelli corvini, l’incarnato di porcellana di Meissen. Ha il mento rivolto verso l’alto e il sopracciglio inarcato, mentre qualcuno che non si vede – c’è da crederci – la chiava, non in direzione della stratosfera (Jana Černá), la chiava e basta. Lo sfondo è verde come bile, verde che sa di malattia e piscio rappreso. Albini è già da oltre un anno una leggenda dell’indie-rock, quello vero, grazie alla pubblicazione del primo album dei Big Black, quell’ Atomizer, che, sorta di blockbuster a scoppio reiterato, ancora miete vittime e proseliti, nel nome dell’aberrazione più allucinata.
Il nostro riprende il discorso già intrapreso con il sopracitato Atomizer tout court, ossia l’alienazione in sé (peraltro analizzata alla luce di eventi, che, come sorta di parabole rovesciate possano avere sull’ascoltatore un effetto stordente fino alla catarsi), scandagliando il particolare microcosmo di quella sessuale in tutte le sue forme. Già la copertina, il cui obiettivo a detta dello stesso Albini era cercare di catalizzare l’attenzione sulla tematica di fondo dell’album, oltre che il titolo, “certamente il più onesto titolo d’album nell’era del rock’n roll”, ricamano un’atmosfera tra le più asfissianti e ripugnanti nella storia della musica popolare, forti di una consapevolezza nei propri mezzi da far spavento finanche all’orda d’oro.
Del resto, questo Songs About Fucking viene ancora oggi considerato come il più riuscito dei Big Black dallo stesso Albini, che peraltro ricorda con piacere di come le sessions scorressero brevi , lisce e furiose, specie per la prima parte dell’album, ponendosi su standard di più svogliata agiatezza per quanto riguarda il secondo lato, cosa che tuttavia non intacca minimamente la portata e la trasmissione del messaggio. Il disco è straordinariamente coeso e vibrante, retaggio di una maturità che porta una resa espressiva da non credere, o di come si possa far credere agli altri che si sta credendo quanto rappresentato; da attori consumati, i Big Black si calano nella parte dei devastati senza lasciar trasparire eccessivo coinvolgimento, o non più di quanto dovuto, essendo in quest’ottica tutto più misurato che in passato (da qui la maggior misura con cui viene naturalmente concepita la seconda parte).
Albini, tuttavia, non sarà mai troppo soddisfatto del lato b, anche se inconsapevolmente vi aggiungerà un’ulteriore cifra stilistica, proiettandosi quasi al di fuori di quanto realizzato (un inedito - quantomeno per lui – modo di incanalare l’alienazione, che quasi risente, chiaramente all’inverso, de Le Paradoxe du Comédien di Diderot: si sostituisca l’alienazione alle passioni, e la freddezza talvolta anemica o talvolta consapevolmente concitata alla nobiltà e alla perfezione del gesto).
Nonostante le speculazioni che un disco di questa portata può generare, peraltro abbastanza fatue, Songs About Fucking rimane, quantomeno nella prima parte, un disco di furia cieca e apparentemente incontrollata. Il trio è affiatatissimo e le prime registrazioni prodigiose per efferatezza; Albini, voce e chitarra, il mitico Santiago Durango (qui accreditato come Melvin Belli) all’altra chitarra, Dave Riley al basso e la fida drum machine Roland TR-606, sulle cui mitragliate i nostri han costruito una carriera breve ma imprescindibile nell’economia della fenomenologia dell’hardcore industriale e derivati (chiedere ai primissimi Jesus Lizard, quelli di Blockbuster per intenderci, tra le altre cose meravigliosamente guidati e “prodotti” dallo stesso Albini, che per diverso tempo ne fu anche positiva eminenza grigia).
Si è parlato a più riprese e da più parti dell’abrasività del suono dei Big Black, specie in tale album, senza considerare troppo che proprio a partire da questa, ultima loro pubblicazione, Albini si libera definitivamente dalle pastoie di certe influenze non ancora metabolizzate appieno, mantenendo invariati l’impatto e la violenza del sound, e segnando la strada maestra per la sua carriera ventura, che toccherà un altro picco di eccellenza col progetto Rapemen (continuità con quest’album già dal titolo, evinto da un noto comic book giapponese, che parla, manco a dirlo, di sesso, stupri, violenze e perversioni assortite) e a partire dal leggendario EP Budd.
Il sesso viene reso in maniera sempre più iperrealistica, il dettaglio anche più insignificante può farsi carico di significati che non si presentino in quanto tali ed incentivare ogni discorso possibile: per anni Albini dovrà combattere contro quest’ossessione, specie quella dello stupro, peraltro da egli stesso ampiamente demonizzata, adducendo la vicinanza del punk a movimenti parafemministi. Combatte le sue ossessioni/compulsioni come una sorta di Gottfried Benn postmoderno, vede la felicità nel nichilismo e nei suoi surrogati (in tale contesto la masturbazione può incunearsi di diritto), per farlo dovrà far quadrare il cerchio, muovendo dall’epocale Kerosene e limando gli eccessi di quell’arte. Ne paga, seppur di poco, l’intensità, e ne viene sacrificato in parte l’impatto ritmico, a favore di una devastazione non più del tutto o quasi aleatoria.
Il primo brano, Power Of Independent Trucking, mette le cose in chiaro, costituendo un breve saggio estetico quando non sostanziale di tutta la carriera dei Big Black: accelerazioni di clangori compresse nella forma classica del pezzo hardcore e una collisione liquida, organica, tra le chitarre di Albini e Durango, che cerca una sua omogeneità di fondo, pur dovendo fare i conti con la centrifuga metallica del primo e lo stile a mo’ di martello pneumatico del secondo (un po’ come stare sotto tortura da due o tre dentisti che ti otturano quattro o cinque denti in simultanea, e l’effetto sul malcapitato è pressappoco lo stesso). Albini smussa le lungaggini dark, mantenendo un’atmosfera claustrofobica allo spasmo; da qui il disco scivolerà che una bellezza, forte di pezzi più brevi che in Atomizer e di una maggiore messa a fuoco. Di fatto l’album non presenta clamorosi pezzi bomba alla Passing Complexion e Kerosene (prese singolarmente i suoi pezzi migliori), è un detonatore elettrico a pressione nel suo complesso.
Il passo verso l’autocelebrazione sarebbe davvero breve, non fosse che Albini ci piazzi in quella una cover strepitosa di The Model dei Kraftwerk (da The Man-Machine, 1978). Tributo commuovente e assolutamente calzante, tramite il quale i Big Black attenuano le istanze precedenti, peraltro senza dissolverle e risolverle. La modella è una sorta di oggetto slegato da quelle che son le dinamiche del comun vivere, incute una soggezione flebile, dovuta al vuoto in cui cerca di compiacersi in maniera apparentemente salda, ma rimane per lo più irraggiungibile, distante da chi s’aliena in lei scorgendola on the cover of a magazine o incontrandola in circostanze più o meno fatue. In poche parole, il protagonista della canzone se la vuole fare e basta, e dalla prospettiva Big Black l’originario synth-pop viene squartato a questo scopo da una cadenza panzer ed un basso rombante, contrappuntato da detonazioni chitarristiche nel loro stile.
Il disco si sviluppa incrementando un grappolo variazioni sul tema, sia sul versante concettuale che su quello strettamente musicale, incede senza che l’ascoltatore razionalizzi e cerchi riflettere su contenuti, una volta per tutte, disturbanti. Le chitarre talvolta s’inarcano in vortici che, come la più insoddisfacente delle eiaculazioni, poi s’inabissano (come nelle “profondità ctonie” di una vagina), planando sull’ascoltatore attonito - e letteralmente stuprato da siffatta barbarie – sorta di fenomeno carsico su scala ridotta: gli accordi si sfilacciano e si sfibrano dopo brevi scosse telluriche, si inseguono, attratti dalle diversità di stile che i due diversi chitarristi portano in dote, ed infine paiono esaurirsi sul più bello. Mai la sensazione di depressione post-orgasmica è stata resa così nel dettaglio (almeno nella musica rock), ed il grande vuoto che permea le azioni dei bruti che popolano questi brani è quanto di più smaccatamente sincero Albini ha potuto rappresentare, quanto di più verosimile, e proprio per questo forse finanche troppo umano.
L’ascoltatore più sensibile e meno smaliziato è quasi portato a vergognarsi di appartenere a questo genere, eppure Albini è così crudo ed esplicito da cercare, in certi casi, di evitare anche solo il rischio di una catarsi. O forse questo è il suo messaggio, o sta ad ognuno di noi declinare le tematiche del disco come meglio crediamo, visto che, in fin dei conti, le aberrazioni vengono solo descritte, quando non interpretate (questo il verosimile citato in precedenza); scivolano tutti gli altri brani senza soluzione di tregua da Bad Penny – con drum machine che quasi scandisce il precipitare per gli anfratti più sconnessi dell’inferno - altro loro pezzo destinato a diventare un loro classico - , passando per L Dopa (breve e metronimico ammasso di basse emozioni a velocità inaudita).
Precious Thing allarga lo spettro delle soluzioni dei Big Black, ove fa capolino una certa psichedelia ed atmosfere degne dei Savage Republic (i quali, come è noto, idolatrano Albini al punto da dedicare un paio d’anni più tardi un loro brano al primo EP dei Rapemen). Si torna a devastare con Colombian Necktie, che tratta dell’amena pratica dello sgozzamento alla sudamericana col loro consueto piglio, drum machine martellante e urla sconnesse che preparano fraseggi marziali di chitarre, affilatissime, e a ragione, pronte all’imminente taglio del collo: il brano si chiude in maniera così secca da pensare che tal cosa sia realmente accaduta, lasciando così ancora una volta rabbrividire l’auditorio, specie considerando la velocità attraverso la quale si dipana questa carrellata di vicende e relativi personaggi , i quali non troverebbero posto manco nelle Malebolge .
Kitty Empire si pone a metà del disco, come ad inaugurare il passo del guado e la fredda e muta consapevolezza che il male abiti tra le pieghe manco tanto nascoste degli uomini, è lento e cadenzato capolavoro della sezione ritmica, spruzzato qua e là di psichedelia, con un Albini sempre più sicuro e capace di piegare il mondo a sua volonta e rappresentazione, che gigioneggia ponendosi con una recitazione inizialmente monocorde e via via più concitata. Prosegue con Ergot, pezzo che si riallaccia timidamente alla prima parte del disco, diretta e lacerante, ma con un retrogusto amaro di avant-noise e nonsense - i Jesus Lizard abitano forse già ben entro i margini del brano, Yow and co. sentitamente ringraziano (in particolare per il vocalismo e le mitragliate di chitarre, ma anche per certe progressioni ritmiche).
La riflessione su questo massimo sistema di brutture sessuali prosegue sempre più variegata, tanto che Kasimir S. Pulaski Day è quasi un crossover impazzito e cingolato, in cui un Albini sdegnato la fa da padrone, svettando su tutta la strumentazione. La coda finale strizza l’occhio al mainstream nella sua immediatezza, un proto-indie appena sporcato dalla consueta abrasività (ben lungi dall’offesa eh!), eppur così breve da lasciar ancora troppo poco spazio ad un’analisi ancora più lucida e chiara del fenomeno. Presumibilmente siamo in Illinois, dove si tiene festa dedicata all’omonimo cavaliere polacco, celebre per essere il padre della cavalleria di George Washington e degli Stati Uniti d’America.
Poco male, perché Fish Fry è, quasi per certo, il momento più agghiacciante e orrorifico del disco, recitazione gotica di un killer, che innaffia l’interno del suo pickup dopo aver preso a calci una donna fino ad ammazzarla – She's wearin' his bootprint on her forehead - , per poi scaricarne il cadavere in uno lago come fosse un rifiuto (mirabile oltretutto l’artifizio linguistico, che lascia ancora una volta sconcertati, giacché pickup in slang statunitense sta ad indicare senza mezzi termini la donna rimorchiata): accordi affilati come lame di rasoio e ritmica opprimente, fatta di serie di tonfi in successione supersonica, il tutto permeato della certezza che sometimes you know you want fuck somebody up, sometimes you just want to fuck; perlomeno sul piano del thrilling il disco raggiunge in tal modo il punto di non ritorno, sviluppato da una mente che riesce a farsi criminale, e ben conscia che bene e male, in fin dei conti, son solo due categorie.
Dopo un simile abominio, anche Pavement Saw rischia di essere ordinaria amministrazione, dando l’impressione di poter venire passata in rassegna, in questo marasma di scambi di liquidi d’ogni risma. Soltanto che il protagonista è oltremodo imbarazzato, il suo lamento è come sospinto dalla musica, l’archetipo dell’antieroe albiniano si macchia qui di nuove sfaccettature; quasi ci induce alla compassione, questa bestia priva di dignità, che non riesce ad affrontare le avances sfrontate di una lei una volta tanto arrembante, e tuttavia stereotipica (probabilmente si fa dell’ironia su certe situazioni, o c’è dell’altro? Con Albini non si dia alcunché per scontato).
Tiny King of the Jew realizza, una volta per tutte nel percorso della band, l’incontro tra atmosfere psichedeliche e brutale noise-rock, forte di una progressione al rallentatore e di un recitato che si trascina con fiacchezza verso la fine del supplizio, in una cappa plumbea da thriller, mentre Bombastic Intro è chiusura piuttosto singolare, come la saturazione di un’incisione profonda: volutamente posta da outro, da l’idea di circolarità dell’album, ascoltabile all’infinito come il singolo canto di una congrega di disgraziati, perdenti, pazzi e assassini, e scossa da epilettiche scariche di adrenalina.
La versione su cd, formato peraltro osteggiato fieramente dal vecchio Steve (un accorato The future belongs to the analog loyalists. Fuck digital campeggia sul retro del vinile) presenta una cover di He’s A Whore dei Cheap Trick, decisamente pigfuck-oriented, finitaci quasi per caso e lasciata dallo stesso Albini, perché, tutto sommato, non dispiace alleggerire un poco i toni, togliendo nulla all’impatto del disco, e facendo in modo semmai che si guadagni in termini di demenzialità e ironia, altra cifra stilistica che ai Big Black sembrava quasi inarrivabile, oltre che suggello assai azzeccato per chiudere l’intero progetto nella migliore delle maniera. La band infatti si scioglie subito dopo la pubblicazione dell’album (cosa peraltro già concordata prima delle registrazioni), data la decisione di Santiago Durango di immatricolarsi in una scuola di legge. E del resto è anche giusto che una band di tale statura termini il proprio percorso al proprio acme, il quale per Albini sarà punto di partenza verso lidi altri, ed il cui enorme bagaglio verrà trasfigurato in altri suoi progetti e produzioni , e secondo ben altre prassi compositivo-esecutive.
Big Black
Songs About Fucking
di Michele Manca
Rivoli di piacere e dolore scorrono a fiotti dal volto di una giovane donna dai capelli corvini, l’incarnato di porcellana di Meissen. Ha il mento rivolto verso l’alto e il sopracciglio inarcato, mentre qualcuno che non si vede – c’è da crederci – la chiava, non in direzione della stratosfera (Jana Černá), la chiava e basta. Lo sfondo è verde come bile, verde che sa di malattia e piscio rappreso. Albini è già da oltre un anno una leggenda dell’indie-rock, quello vero, grazie alla pubblicazione del primo album dei Big Black, quell’ Atomizer, che, sorta di blockbuster a scoppio reiterato, ancora miete vittime e proseliti, nel nome dell’aberrazione più allucinata.
Il nostro riprende il discorso già intrapreso con il sopracitato Atomizer tout court, ossia l’alienazione in sé (peraltro analizzata alla luce di eventi, che, come sorta di parabole rovesciate possano avere sull’ascoltatore un effetto stordente fino alla catarsi), scandagliando il particolare microcosmo di quella sessuale in tutte le sue forme. Già la copertina, il cui obiettivo a detta dello stesso Albini era cercare di catalizzare l’attenzione sulla tematica di fondo dell’album, oltre che il titolo, “certamente il più onesto titolo d’album nell’era del rock’n roll”, ricamano un’atmosfera tra le più asfissianti e ripugnanti nella storia della musica popolare, forti di una consapevolezza nei propri mezzi da far spavento finanche all’orda d’oro.
Del resto, questo Songs About Fucking viene ancora oggi considerato come il più riuscito dei Big Black dallo stesso Albini, che peraltro ricorda con piacere di come le sessions scorressero brevi , lisce e furiose, specie per la prima parte dell’album, ponendosi su standard di più svogliata agiatezza per quanto riguarda il secondo lato, cosa che tuttavia non intacca minimamente la portata e la trasmissione del messaggio. Il disco è straordinariamente coeso e vibrante, retaggio di una maturità che porta una resa espressiva da non credere, o di come si possa far credere agli altri che si sta credendo quanto rappresentato; da attori consumati, i Big Black si calano nella parte dei devastati senza lasciar trasparire eccessivo coinvolgimento, o non più di quanto dovuto, essendo in quest’ottica tutto più misurato che in passato (da qui la maggior misura con cui viene naturalmente concepita la seconda parte).
Albini, tuttavia, non sarà mai troppo soddisfatto del lato b, anche se inconsapevolmente vi aggiungerà un’ulteriore cifra stilistica, proiettandosi quasi al di fuori di quanto realizzato (un inedito - quantomeno per lui – modo di incanalare l’alienazione, che quasi risente, chiaramente all’inverso, de Le Paradoxe du Comédien di Diderot: si sostituisca l’alienazione alle passioni, e la freddezza talvolta anemica o talvolta consapevolmente concitata alla nobiltà e alla perfezione del gesto).
Nonostante le speculazioni che un disco di questa portata può generare, peraltro abbastanza fatue, Songs About Fucking rimane, quantomeno nella prima parte, un disco di furia cieca e apparentemente incontrollata. Il trio è affiatatissimo e le prime registrazioni prodigiose per efferatezza; Albini, voce e chitarra, il mitico Santiago Durango (qui accreditato come Melvin Belli) all’altra chitarra, Dave Riley al basso e la fida drum machine Roland TR-606, sulle cui mitragliate i nostri han costruito una carriera breve ma imprescindibile nell’economia della fenomenologia dell’hardcore industriale e derivati (chiedere ai primissimi Jesus Lizard, quelli di Blockbuster per intenderci, tra le altre cose meravigliosamente guidati e “prodotti” dallo stesso Albini, che per diverso tempo ne fu anche positiva eminenza grigia).
Si è parlato a più riprese e da più parti dell’abrasività del suono dei Big Black, specie in tale album, senza considerare troppo che proprio a partire da questa, ultima loro pubblicazione, Albini si libera definitivamente dalle pastoie di certe influenze non ancora metabolizzate appieno, mantenendo invariati l’impatto e la violenza del sound, e segnando la strada maestra per la sua carriera ventura, che toccherà un altro picco di eccellenza col progetto Rapemen (continuità con quest’album già dal titolo, evinto da un noto comic book giapponese, che parla, manco a dirlo, di sesso, stupri, violenze e perversioni assortite) e a partire dal leggendario EP Budd.
Il sesso viene reso in maniera sempre più iperrealistica, il dettaglio anche più insignificante può farsi carico di significati che non si presentino in quanto tali ed incentivare ogni discorso possibile: per anni Albini dovrà combattere contro quest’ossessione, specie quella dello stupro, peraltro da egli stesso ampiamente demonizzata, adducendo la vicinanza del punk a movimenti parafemministi. Combatte le sue ossessioni/compulsioni come una sorta di Gottfried Benn postmoderno, vede la felicità nel nichilismo e nei suoi surrogati (in tale contesto la masturbazione può incunearsi di diritto), per farlo dovrà far quadrare il cerchio, muovendo dall’epocale Kerosene e limando gli eccessi di quell’arte. Ne paga, seppur di poco, l’intensità, e ne viene sacrificato in parte l’impatto ritmico, a favore di una devastazione non più del tutto o quasi aleatoria.
Il primo brano, Power Of Independent Trucking, mette le cose in chiaro, costituendo un breve saggio estetico quando non sostanziale di tutta la carriera dei Big Black: accelerazioni di clangori compresse nella forma classica del pezzo hardcore e una collisione liquida, organica, tra le chitarre di Albini e Durango, che cerca una sua omogeneità di fondo, pur dovendo fare i conti con la centrifuga metallica del primo e lo stile a mo’ di martello pneumatico del secondo (un po’ come stare sotto tortura da due o tre dentisti che ti otturano quattro o cinque denti in simultanea, e l’effetto sul malcapitato è pressappoco lo stesso). Albini smussa le lungaggini dark, mantenendo un’atmosfera claustrofobica allo spasmo; da qui il disco scivolerà che una bellezza, forte di pezzi più brevi che in Atomizer e di una maggiore messa a fuoco. Di fatto l’album non presenta clamorosi pezzi bomba alla Passing Complexion e Kerosene (prese singolarmente i suoi pezzi migliori), è un detonatore elettrico a pressione nel suo complesso.
Il passo verso l’autocelebrazione sarebbe davvero breve, non fosse che Albini ci piazzi in quella una cover strepitosa di The Model dei Kraftwerk (da The Man-Machine, 1978). Tributo commuovente e assolutamente calzante, tramite il quale i Big Black attenuano le istanze precedenti, peraltro senza dissolverle e risolverle. La modella è una sorta di oggetto slegato da quelle che son le dinamiche del comun vivere, incute una soggezione flebile, dovuta al vuoto in cui cerca di compiacersi in maniera apparentemente salda, ma rimane per lo più irraggiungibile, distante da chi s’aliena in lei scorgendola on the cover of a magazine o incontrandola in circostanze più o meno fatue. In poche parole, il protagonista della canzone se la vuole fare e basta, e dalla prospettiva Big Black l’originario synth-pop viene squartato a questo scopo da una cadenza panzer ed un basso rombante, contrappuntato da detonazioni chitarristiche nel loro stile.
Il disco si sviluppa incrementando un grappolo variazioni sul tema, sia sul versante concettuale che su quello strettamente musicale, incede senza che l’ascoltatore razionalizzi e cerchi riflettere su contenuti, una volta per tutte, disturbanti. Le chitarre talvolta s’inarcano in vortici che, come la più insoddisfacente delle eiaculazioni, poi s’inabissano (come nelle “profondità ctonie” di una vagina), planando sull’ascoltatore attonito - e letteralmente stuprato da siffatta barbarie – sorta di fenomeno carsico su scala ridotta: gli accordi si sfilacciano e si sfibrano dopo brevi scosse telluriche, si inseguono, attratti dalle diversità di stile che i due diversi chitarristi portano in dote, ed infine paiono esaurirsi sul più bello. Mai la sensazione di depressione post-orgasmica è stata resa così nel dettaglio (almeno nella musica rock), ed il grande vuoto che permea le azioni dei bruti che popolano questi brani è quanto di più smaccatamente sincero Albini ha potuto rappresentare, quanto di più verosimile, e proprio per questo forse finanche troppo umano.
L’ascoltatore più sensibile e meno smaliziato è quasi portato a vergognarsi di appartenere a questo genere, eppure Albini è così crudo ed esplicito da cercare, in certi casi, di evitare anche solo il rischio di una catarsi. O forse questo è il suo messaggio, o sta ad ognuno di noi declinare le tematiche del disco come meglio crediamo, visto che, in fin dei conti, le aberrazioni vengono solo descritte, quando non interpretate (questo il verosimile citato in precedenza); scivolano tutti gli altri brani senza soluzione di tregua da Bad Penny – con drum machine che quasi scandisce il precipitare per gli anfratti più sconnessi dell’inferno - altro loro pezzo destinato a diventare un loro classico - , passando per L Dopa (breve e metronimico ammasso di basse emozioni a velocità inaudita).
Precious Thing allarga lo spettro delle soluzioni dei Big Black, ove fa capolino una certa psichedelia ed atmosfere degne dei Savage Republic (i quali, come è noto, idolatrano Albini al punto da dedicare un paio d’anni più tardi un loro brano al primo EP dei Rapemen). Si torna a devastare con Colombian Necktie, che tratta dell’amena pratica dello sgozzamento alla sudamericana col loro consueto piglio, drum machine martellante e urla sconnesse che preparano fraseggi marziali di chitarre, affilatissime, e a ragione, pronte all’imminente taglio del collo: il brano si chiude in maniera così secca da pensare che tal cosa sia realmente accaduta, lasciando così ancora una volta rabbrividire l’auditorio, specie considerando la velocità attraverso la quale si dipana questa carrellata di vicende e relativi personaggi , i quali non troverebbero posto manco nelle Malebolge .
Kitty Empire si pone a metà del disco, come ad inaugurare il passo del guado e la fredda e muta consapevolezza che il male abiti tra le pieghe manco tanto nascoste degli uomini, è lento e cadenzato capolavoro della sezione ritmica, spruzzato qua e là di psichedelia, con un Albini sempre più sicuro e capace di piegare il mondo a sua volonta e rappresentazione, che gigioneggia ponendosi con una recitazione inizialmente monocorde e via via più concitata. Prosegue con Ergot, pezzo che si riallaccia timidamente alla prima parte del disco, diretta e lacerante, ma con un retrogusto amaro di avant-noise e nonsense - i Jesus Lizard abitano forse già ben entro i margini del brano, Yow and co. sentitamente ringraziano (in particolare per il vocalismo e le mitragliate di chitarre, ma anche per certe progressioni ritmiche).
La riflessione su questo massimo sistema di brutture sessuali prosegue sempre più variegata, tanto che Kasimir S. Pulaski Day è quasi un crossover impazzito e cingolato, in cui un Albini sdegnato la fa da padrone, svettando su tutta la strumentazione. La coda finale strizza l’occhio al mainstream nella sua immediatezza, un proto-indie appena sporcato dalla consueta abrasività (ben lungi dall’offesa eh!), eppur così breve da lasciar ancora troppo poco spazio ad un’analisi ancora più lucida e chiara del fenomeno. Presumibilmente siamo in Illinois, dove si tiene festa dedicata all’omonimo cavaliere polacco, celebre per essere il padre della cavalleria di George Washington e degli Stati Uniti d’America.
Poco male, perché Fish Fry è, quasi per certo, il momento più agghiacciante e orrorifico del disco, recitazione gotica di un killer, che innaffia l’interno del suo pickup dopo aver preso a calci una donna fino ad ammazzarla – She's wearin' his bootprint on her forehead - , per poi scaricarne il cadavere in uno lago come fosse un rifiuto (mirabile oltretutto l’artifizio linguistico, che lascia ancora una volta sconcertati, giacché pickup in slang statunitense sta ad indicare senza mezzi termini la donna rimorchiata): accordi affilati come lame di rasoio e ritmica opprimente, fatta di serie di tonfi in successione supersonica, il tutto permeato della certezza che sometimes you know you want fuck somebody up, sometimes you just want to fuck; perlomeno sul piano del thrilling il disco raggiunge in tal modo il punto di non ritorno, sviluppato da una mente che riesce a farsi criminale, e ben conscia che bene e male, in fin dei conti, son solo due categorie.
Dopo un simile abominio, anche Pavement Saw rischia di essere ordinaria amministrazione, dando l’impressione di poter venire passata in rassegna, in questo marasma di scambi di liquidi d’ogni risma. Soltanto che il protagonista è oltremodo imbarazzato, il suo lamento è come sospinto dalla musica, l’archetipo dell’antieroe albiniano si macchia qui di nuove sfaccettature; quasi ci induce alla compassione, questa bestia priva di dignità, che non riesce ad affrontare le avances sfrontate di una lei una volta tanto arrembante, e tuttavia stereotipica (probabilmente si fa dell’ironia su certe situazioni, o c’è dell’altro? Con Albini non si dia alcunché per scontato).
Tiny King of the Jew realizza, una volta per tutte nel percorso della band, l’incontro tra atmosfere psichedeliche e brutale noise-rock, forte di una progressione al rallentatore e di un recitato che si trascina con fiacchezza verso la fine del supplizio, in una cappa plumbea da thriller, mentre Bombastic Intro è chiusura piuttosto singolare, come la saturazione di un’incisione profonda: volutamente posta da outro, da l’idea di circolarità dell’album, ascoltabile all’infinito come il singolo canto di una congrega di disgraziati, perdenti, pazzi e assassini, e scossa da epilettiche scariche di adrenalina.
La versione su cd, formato peraltro osteggiato fieramente dal vecchio Steve (un accorato The future belongs to the analog loyalists. Fuck digital campeggia sul retro del vinile) presenta una cover di He’s A Whore dei Cheap Trick, decisamente pigfuck-oriented, finitaci quasi per caso e lasciata dallo stesso Albini, perché, tutto sommato, non dispiace alleggerire un poco i toni, togliendo nulla all’impatto del disco, e facendo in modo semmai che si guadagni in termini di demenzialità e ironia, altra cifra stilistica che ai Big Black sembrava quasi inarrivabile, oltre che suggello assai azzeccato per chiudere l’intero progetto nella migliore delle maniera. La band infatti si scioglie subito dopo la pubblicazione dell’album (cosa peraltro già concordata prima delle registrazioni), data la decisione di Santiago Durango di immatricolarsi in una scuola di legge. E del resto è anche giusto che una band di tale statura termini il proprio percorso al proprio acme, il quale per Albini sarà punto di partenza verso lidi altri, ed il cui enorme bagaglio verrà trasfigurato in altri suoi progetti e produzioni , e secondo ben altre prassi compositivo-esecutive.
Artinside- Membro classe argento
- Data d'iscrizione : 29.01.09
Numero di messaggi : 3182
Località : Sassari
Occupazione/Hobby : Arte Contemporanea
Impianto :- Spoiler:
- Sorgente: Jvc xv-n680
Pre: Minimalist autocostruito
Amplificatori: Hifimediy Tk2050 alimentata in AC, Smsl sa-s1 Ta2020, Smsl sa-s2 Ta2024, Helder Audio Ta2024 , S I T amp Ta2024, Sure Ta2024, Sure "Octopus" Tpa 3123, Scythe sda1000, Gainclone Lm1875
Diffusori Esb xl5, Alix Project One
Ampli cuffie: Poppulse mini headphone amp
Cuffie: Grado - Alessandro MS1, Koss Portapro, Jvc ha-fxc51, Monoprice 8320, Jvc Ha-fx34, Awei es-q9, Xkdun Ck-700 etc, etc, etc....
vastx- Membro classe argento
- Data d'iscrizione : 15.11.09
Numero di messaggi : 2523
Località : Sicilia Orientale
Impianto : Al di là della misura non c'è limite alcuno.
(Epitteto)
Re: Big Black - Songs about fucking
Adoro Albini! Sono anche felice possessore di Songs about fucking in vinile.
I Big Black, tra l'altro, sono anche il motivo per cui mi diverto a fare musica
I Big Black, tra l'altro, sono anche il motivo per cui mi diverto a fare musica
Superfuzz- Affezionato
- Data d'iscrizione : 03.06.11
Numero di messaggi : 154
Località : Napoli
Provincia : Napoli
Occupazione/Hobby : Sviluppo Software
Impianto :- Cose che uso per ascoltare:
- PC: iMac mid 2014. Marantz CD-53mkII. Amp/dac: Teac A-H01 - B&W 686s2
Cuffie Sennheiser HD600 - Grado SR80i - Sony MDR-7506 - Amp per cuffia Bravo Audio
Re: Big Black - Songs about fucking
Ho consumato i solchi di questo lp..Anzi vado a riascoltarlo subito...Metto su anche gli Swans di holy money e la faccio completa!!!
Antonello Alessi- Membro di riguardo
- Data d'iscrizione : 13.02.11
Numero di messaggi : 867
Località : Messina
Provincia : TORRE FARO
Occupazione/Hobby : Vela ,Pesca sub ,Fotografia
Impianto : SuperNait 1, Teac cd 5,Rotel RDV-1062, Project Perspective, Hana Sl, Project phono box Ds Plus, Step up Ortofon MC 72, Usher mini Dancer one beryllium,dac project Box DS2 plus, dac superpro 707, V-dac II, Mosscade 502, Heco 201.
Argomenti simili
» Bollywood songs
» Top Songs 2010
» QOTSA - Songs for the Deaf
» Ten Johnny Cash Songs
» Stamattina... Oggi pomeriggio... Stasera... Stanotte... (parte 8)
» Top Songs 2010
» QOTSA - Songs for the Deaf
» Ten Johnny Cash Songs
» Stamattina... Oggi pomeriggio... Stasera... Stanotte... (parte 8)
Pagina 1 di 1
Permessi in questa sezione del forum:
Non puoi rispondere agli argomenti in questo forum.
Ieri alle 23:18 Da Quaiozi!
» thorens td 145 mkII help
Ieri alle 21:52 Da morgana90
» È morto Quincy Jones, il leggendario musicista e produttore aveva 91 anni
Ieri alle 21:45 Da Albert^ONE
» lenco l 75
Ieri alle 21:04 Da Quaiozi!
» Problema audio tv
Ieri alle 19:24 Da mattia9210
» Sostituzione testina Thorne TD 166
Ieri alle 17:57 Da Matt1989
» Braccio Thorens TP16 - Posizione corretta del magnete toroidale dell'antiskating
Ieri alle 11:55 Da Fabix
» lenco l 75
Gio 7 Nov 2024 - 18:53 Da Quaiozi!
» TD 160 MOTORE
Gio 7 Nov 2024 - 12:16 Da philball1959
» Klipsch La Scala AL-3 crossover originali
Gio 7 Nov 2024 - 7:39 Da audiophile.1963
» Amplificatore Audiodesign AG6 per chitarra acustica.
Mer 6 Nov 2024 - 6:21 Da Skywalker_64
» Streaming - Qualità Radio online
Mar 5 Nov 2024 - 22:29 Da novembrino
» consiglio acquisto impianto usato CAV AUDIO
Mar 5 Nov 2024 - 1:09 Da Sasasalvo
» Che musica ascoltate in questo momento?
Lun 4 Nov 2024 - 18:35 Da mauretto
» Il peggior componente che abbiamo mai acquistato
Lun 4 Nov 2024 - 17:11 Da arthur dent
» Quale ampli per sostituire Rega Brio r
Lun 4 Nov 2024 - 8:31 Da Marco Ravich
» KEF R3 META
Sab 2 Nov 2024 - 22:28 Da ste-65
» jbl Radiance 121 VX
Sab 2 Nov 2024 - 21:21 Da nino_cento
» Fosco Marain, Stefano Bollani e Massimo Altomare - Gnòsi delle Fànfole (2007)
Sab 2 Nov 2024 - 16:47 Da mauz
» Nuovo Eversolo DMP A-10
Gio 31 Ott 2024 - 10:23 Da giucam61
» Switch - Preamp
Mer 30 Ott 2024 - 22:15 Da Federico01
» sl pg460a non legge piu i cd .. e altri quesiti.
Mer 30 Ott 2024 - 11:25 Da fileo
» L' angolo di novembrino
Mar 29 Ott 2024 - 22:42 Da novembrino
» Foobar 2000 visualizzare elenco random
Mar 29 Ott 2024 - 14:47 Da arthur dent
» Buchardt Audio E50 (in preordine)
Mar 29 Ott 2024 - 8:48 Da Chardonnay
» Loxjie A40 vs "alternativa"
Lun 28 Ott 2024 - 0:16 Da erik42788088
» Troppi morsetti
Dom 27 Ott 2024 - 21:23 Da arthur dent
» Sony nw-a45 - cavo di registrazione
Sab 26 Ott 2024 - 16:41 Da chris75
» Consigli Yamaha m2 + pre amp c4
Sab 26 Ott 2024 - 14:41 Da Gio_992
» Nad 3020i ai possessori ed ex
Sab 26 Ott 2024 - 10:58 Da giucam61